L’italiano, così come il mondo in questo momento, è affetto da un virus dilagante. Non si tratta, però, di Covid-19. Non miete lo stesso numero di vittime e non lo fa lo stesso clamore, perché oramai è diventato un compagno poco rumoroso della nostra quotidianità. Si tratta del Morbus Anglicus e l’italiano ne è affetto da decenni.

Già nel 1987 fu pubblicato, infatti, un articolo di Arrigo Castellani destinato a passare alla storia (Studi linguistici italiani, n. 13, 1987, Salerno Editrice, Roma).

“Nome del paziente: Italiano. Professione: lingua letteraria. Età: quattordici secoli, o sette, secondo i punti di vista. Carriera scolastica: ritardata, ma con risultati particolarmente brillanti fin dall’inizio. 

Diagnosi: sintomi chiarissimi di morbus anglicus (con complicazioni), fase acuta.

Prognosi: favorevole, purché (punti di sospensione). Già, purché: dato che il virus, nel caso che c’interessa, agisce in profondità, attaccando gli organi essenziali. Un medico prudente parlerebbe piuttosto di prognosi riservata”.

Il giudizio di Castellani fu, però, archiviato. Autorevoli linguisti del calibro di Tullio De Mauro sposarono a lungo la tesi del negazionismo. Gli anglicismi lambivano, a loro vedere, l’italiano esternamente senza intaccarne il nucleo centrale. I timori dei puristi furono giudicati esagerati dai fautori del liberismo linguistico. L’italiano aveva in sé gli anticorpi per sopravvivere all’anglicizzazione.

Qualche voce fuori dal coro, però, ci fu. In una scena nota del film Palombella rossa del 1989 Nanni Moretti aggredisce verbalmente una giornalista che gli rivolge una domanda piena zeppa di anglicismi, tra cui la parola trend. Lui urla alla giornalista: «Ma come parlaaa? Ma come parlaaa? Le parole sono importanti! Chi parla male, pensa male e vive male. Le parole sono importanti: trend negativo… Io non parlo così, io non penso così…». E poi, preso dalla rabbia e non riuscendo a trattenersi, la schiaffeggia sonoramente.

Che ne è del Morbus Anglicus a distanza di oltre trent’anni?

Innanzi al dilagare degli anglicismi, dopo avere negato a lungo il fenomeno, Tullio De Mauro ha rivisto, con grande onestà intellettuale, le proprie posizioni. Nel 2014 ha ammesso che “gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi (…) anche nel vocabolario fondamentale” (Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, 2014, Laterza, Bari).
E successivamente ha ridefinito il fenomeno del Morbus Anglicus uno tsunami anglicus con dimensioni sproporzionate e andamento ondivago.

Anche Luca Serianni ha cambiato idea. In un’intervista rilasciata per l’Huffingtonpost ha evidenziato l’invadenza degli anglicismi in un italiano che non è più in grado di metabolizzarli. 

Ventanni fa ero più ottimista riguardo alla questione degli anglicismi: ritenevo che il prestito fosse un problema fisiologico e che il tasso di parole inglesi non adattate non fosse così alto. Adesso vedo che il numero comincia veramente a essere un po’ invadente, soprattutto rispetto alla capacità di metabolizzazione.

Arrigo Castellani fu quindi profetico trent’anni or sono con il suo articolo sul Morbus Anglicus. La diagnosi era azzeccata, ma non la cura proposta. 

Tanti sono stati i tentativi di arginamento della commistione di espressioni e costrutti italiani e inglesi nota come italiese a partire dagli Stati Generali della Lingua Italiana nel Mondo, e dalla Campagna per salvare l’italiano, alla petizione #dilloinitaliano lanciata su Internazionale da Anna Maria Testa con l’appoggio dell’Accademia della Crusca e alle 200 schede di pronto soccorso linguistico allegate all’edizione del 2017 del Devoto Oli.

Il morbo, però, è tuttora dilagante, ed occorre intervenire in difesa della “lingua italiana che, come ogni lingua madre, è una risorsa di pari dignità rispetto al patrimonio artistico, paesaggistico, culturale e gastronomico”, come evidenziato nel Manifesto di AIIC Italia de La Lingua Madre. È necessario “uno sforzo collegiale di riappropriazione moderna, creativa e spigliata della lingua italiana. Non un esercizio accademico, non di conservazione, non di restauro, ma un’operazione etica, estetica, democratica ed economica”.