Generazioni e lingua: chi ha paura dello slang?

di Beatrice Cristalli

I giovani parlano come i trapper. Il digitale ha semplificato troppo il nostro vocabolario. Questi adolescenti sono proprio incomprensibili quando parlano.

Siamo sicuri di non aver già vissuto questo momento? No, non è propriamente un deja vu quello di cui sto parlando, ma è la storia delle generazioni, la storia di come costruiamo da sempre le nostre comunità di parlanti. Facciamo un rapido salto nel passato: «[…] tra i ragazzi italiani emergerebbero verosimilmente gli ormai proverbiali xke al posto di ‘perché’, tvb per ‘ti voglio bene’ o cmq invece di ‘comunque’. Ma anche nuove forme di saluto, come bella, rivisitazione del vecchio ‘ciao’. O slittamenti del significato, come nel caso di pisciare, ormai usato come sinonimo di ‘lasciare’, ‘abbandonare’. Oppure accollarsi, sostituto di ‘mettersi in mezzo’, ‘dare fastidio’». Siamo nel 2010, un passato non troppo distante, ma abbastanza riconoscibile per stranire le nostre orecchie. E questo articolo è stato pubblicato su Repubblica, con un titolo che oggi, a noi Millennial, figli di Msn, Myspace e qualche ciaone usato a sproposito, forse ci fa un po’ sorridere: “Bella e scialla: ecco come parla la generazione 20 parole”.

Lo stesso imbarazzo lo abbiamo provato due anni fa quando è scoppiata una polemica, diventata subito virale, sul gergo generazionale proposto in un’antologia del liceo. Come riporta una foto pubblicata sul profilo Instagram di ScuolaZoo, la consegna dell’esercizio chiedeva allo studente di eliminare dal testo tutti i termini e le espressioni del linguaggio giovanile. Fin qui tutto bene, anzi, benissimo. Si tratta di insegnare l’uso dei diversi registri linguistici nel parlato e nello scritto. Peccato che nel dialogo proposto ci fosse qualcosa di strano. Solo per fare qualche esempio vi elenco una serie di espressioni interessanti: bella raga, come butta, la situa e ancora camomillati. Ecco, se fossimo nel 2010, se il dialogo fosse effettivamente curvato sul codice Millennial − anche se camomillati, andando a spulciare le mie Smemoranda, non l’ho mai trovato −, nessuno sarebbe stato travolto da quella inconfondibile vergogna che, utilizzando la definizione del filosofo Tonino Griffero, provi per qualcuno che non la prova affatto, e forse dovrebbe: il cringe.

L’attenzione mediatica a questo esercizio nasce proprio dal fatto che a essere cringiati sono stati proprio gli adolescenti della Generazione Z (i nati tra il 1996 e il 2010), non solo in quanto diretti interessati nello svolgimento dell’esercizio, ma, soprattutto, in quanto personaggi rappresentati nel dialogo fittizio. O meglio, fantascientifico. A tutte le persone che mi hanno inviato il post e mi hanno chiesto un parere ho risposto in questo modo: se non si accetta né si accoglie la dinamica intrinseca al gergo generazionale, che è la stessa da sempre, il rischio è di dar vita a una parodia. E poi non lamentiamoci se lo iato tra le varie generazioni è in aumento.

Secondo me il punto è proprio questo: chi ha paura dello slang, non conosce lo slang. Ai giovani, allo slang stesso, non interessa proprio avere un contatto con la lingua nel senso che comunemente gli attribuiamo, ovvero “quella dei dizionari”.

Intanto, i linguaggi giovanili (che sono tanti, non uno solo) sono una varietà dell’italiano, quindi un sottogruppo con precise caratteristiche sociolinguistiche che riguarda soprattutto − ma non esclusivamente − la fascia anagrafica giovanile. In altre parole, fanno parte del sistema lingua, esattamente come i linguaggi specialistici, l’italiano aulico o quello burocratico. Lo slang, dunque, abita da sempre il nostro sistema di comunicazione, anche e soprattutto perché ha una funzione ben precisa. Mi riferisco alla formazione dell’identità di una comunità, quella degli adolescenti, e me la immagino come un movimento, quasi una spirale. Da un lato, abbiamo il moto centripeto, che simboleggia la tensione verso l’interno, verso un codice capace di garantire una comunicazione tra i membri, che proprio nel codice si riconoscono come parte di qualcosa più grande di loro; dall’altro, il moto centrifugo, attraverso cui gli adolescenti marcano la propria voce e allontanano la comunità degli adulti.

L’atteggiamento linguistico diventa così specchio di un atteggiamento sociale, nel gioco relazionale tra omologazione e deviazione. Una danza, con pochi contatti, tra due mondi: adulti e nuove generazioni. Pochi e invadentissimi, perché l’idea comune considera lo slang come un virus che infetta la lingua italiana. In realtà, la maggior parte delle innovazioni linguistiche dello slang rimane interna allo slang stesso, anche se può accadere che qualche elemento di un gergo vada a finire nella lingua comune, ma non senza un’attenta osservazione e archiviazione delle occorrenze da parte di un comitato scientifico. Lo slang arricchisce prima di tutto sé stesso e poi eventualmente la lingua. Avete ancora paura?